Perché anche in Italia il mini documentario deve diventare uno standard per il video marketing (e non solo)
Il mini documentario è essenzialmente l’equivalente del cortometraggio nella documentaristica.
In sostanza racconta nell’arco di pochi minuti una storia che normalmente non reggerebbe la durata classica del documentario (dai sessanta minuti in su per intenderci), ma che vale ugualmente la pena di raccontare.
Inoltre, se usata all’interno di una campagna marketing, essa trasmette in maniera efficace i valori di un brand.
All’estero, in particolare in USA e UK, il mini doc (con le varie ‘filiazioni’ quali One Minute Film, brand film, micro doc) è ormai uno standard irrinunciabile per ogni campagna pubblicitaria che si rispetti e marchi come Red Bull, Vans o Adidas ne hanno fatto un tratto distintivo della loro strategia di marketing.
Perché il mini doc?
I motivi per cui un mini documentario è un valido strumento di video marketing sono vari:
- E’ flessibile: il mini doc si adatta praticamente ad ogni tipo di storia e tematica: dallo sport alla musica, dalla politica all’economia, è sempre possibile avere a disposizione una storia rilevante da raccontare.
- Si adegua al medium: negli anni il mini doc si è evoluto e sono nati generi quali il ‘brand film’ (che prevede un product placement non troppo invasivo) ed il ‘One Minute Film’ che condensa una storia in sessanta secondi (ottimi esempi sono le serie ‘One Minute Wonder’ e ‘Human Postcards’), rendendolo allo stesso tempo perfetto come post per Instagram ed efficace come teaser per il mini doc vero e proprio. Inoltre il recente lancio di IGTV proprio da parte di Instagram, potrebbe portare ad ulteriori evoluzioni.
- Produzione agile: sebbene colossi come Red Bull o Adidas impieghino troupe composte da più persone, un mini doc può anche essere gestito da un singolo filmmaker con conseguente riduzione dei costi, rendendo dunque il format accessibile anche da parte di aziende di piccole e medie dimensioni.
- E’ social: espressione un po’ abusata, ma che rende l’idea di quanto il mini doc possa essere fruibile attraverso i principali social network, del resto si tratta di una genere nato da e per il web.
- Suscita empatia: lo spettatore, nonché potenziale acquirente, tende a guardare più volentieri video che comunicano verità e con i quali ci si può identificare perché istantanee spesso tratte dal quotidiano.
- E’ incentrato sullo storytelling: è pubblicità ma non sembra pubblicità, dunque chi guarda ha potenzialmente una maggior predisposizione ad acquistare il prodotto o il servizio, in quanto si sente ‘coinvolto’ dal brand.
- Si presta alla serialità: è anche possibile produrre più mini doc sullo stesso tema o soggetto, che scandiscano una campagna marketing più ad ampio respiro.
Brand che diventano editori: i migliori esempi di mini documentario
L’avvento del web e conseguentemente dei social network, ha dato la possibilità ai brand di diventare essi stessi editori, incidendo direttamente sulla linea editoriale da seguire. Ecco alcuni esempi di brand che hanno attuato questa transizione con successo.
Red Bull: tra le prime aziende, se non la prima in assoluto, a credere in questo formato e nell’opportunità di trasmettere i valori di un brand attraverso uno storytelling mirato, al punto da creare una vera e propria web tv, Red Bull Tv. Negli anni si è dotata di un hub produttivo interno all’avanguardia, la Red Bull Media House e inoltre i contenuti possono essere fruibili anche attraverso una app dedicata.
Vans: “All the best videos featuring art, music, action sports and street culture presented by Vans, off the wall since 1966.”. Questa la tagline di ‘Vans Off The Wall’, senza dubbio uno dei migliori canali presenti su Vimeo (ma anche su YouTube), che propone contenuti perfettamente in linea con i valori del brand.
Adidas: anche la celebre marca di abbigliamento sportivo ha creduto in questo formato ed ha prodotto diversi mini doc, tra cui una serie in collaborazione con ESPN.
Starbucks: Il colosso americano del caffè ha scommesso sul mini doc con il progetto ‘Meet me at Starbucks’, un film collettivo da cui è stata tratta una serie che porta lo stesso nome e di recente è partito anche il progetto, stilisticamente affine, ‘Starbucks Coffe Stories’. Il concetto alla base è semplice quanto efficace: Starbucks non è solo un posto dove sorseggiare un caffè, ma anche un luogo di incontro, un crocevia dove confluiscono persone, ognuna delle quali ha una storia da raccontare.
Philip Bloom: non è una brand, ma è come se lo fosse. Il filmmaker inglese più di ogni altro ha dato una dignità artistica al genere, che lo ha portato a lavorare con grossi brand da tutto il mondo.
Qui un mini doc realizzato per Sony.
Non solo marketing: il mini doc nell’editoria e nell’informazione
Per capire quanto all’estero il mini documentario sia un genere rilevante, bisogna far riferimento a quanto sia diventato un mezzo creazione di contenuti imprescindibile anche nell’editoria e nell’informazione.
AJ+: la piattaforma web di Al Jazeera è un’eccellenza nel campo dell’informazione 2.0, anche grazie all’app dedicata. In particolare la serie ‘Original Shorts’, a metà strada tra documentario e reportage, con un occhio di riguardo per le istanze a carattere sociale, è un ottimo esempio di come il mini doc possa essere utilizzato anche nel settore dell’informazione.
New Yorker: la piattaforma video del quotidiano newyorkese è uno dei fiori all’occhiello del gruppo Condé Nast. Anche il New Yorker ha dunque deciso di produrre dei mini doc, alcuni dei quali nominati ‘Staff Pick’ su Vimeo (sulla cui piattaforma il NY ha creato un canale ad hoc dedicato alla documentaristica) come questo ‘Finding Meaning in Music’.
Conclusioni
L’Italia storicamente recepisce in ritardo i nuovi trend, soprattutto in ambito video, basti pensare che si producono ancora gli ormai vetusti video aziendali, ma è decisamente arrivato il momento di aprirsi a modalità espressive che all’estero sono degli standard consolidati, mentre da noi sono inopinatamente ignorate o addirittura guardate con sospetto.